Intorno all’anno 1300, Firenze conosce gli effetti di un’espressiva fioritura economica e culturale, è una città benestante, forte di una solida borghesia mercantile e finanziaria. E’ in questo clima che si sviluppa la figura di Giotto, la cui pittura diventa simbolo e immagine della sicurezza morale e materiale del suo tempo.
Le notizie biografiche sui primi anni dell’artista sono assai frammentarie o poco attendibili. Secondo quanto riportato da Antonio Pucci la data di nascita sarebbe riconducibile al 1266, e avrebbe avuto luogo presso Vespignano Del Mugello, nei dintorni di Firenze. La famiglia era d’origini contadine il capo famiglia, Bondone, è ricordato come ” lavoratore di terra e naturale persona”. I suoi contemporanei, fin dal primo apparire nella scena artistica, sentirono la grande spinta rivoluzionaria legata al suo operato, e lo indicarono come il creatore di un stil novo della pittura. Nel canto XI del Purgatorio, Dante lo contrappone al maestro Cimabue: “Credette Cimabue / Tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, / Sì che la fama di lui oscura”(versi 94-96).
Petrarca, pur preferendo a Giotto la scuola senese, dichiarò la bellezza intellettuale della sua pittura.Non poteva mancare il commento di Boccaccio, che delinea la figura di Giotto, oltre a celebrarne le doti artistiche. Nella quinta novella della sesta giornata del Decameron, lo troviamo sotto mentite spoglie, rappresentato come un uomo vivace ed arguto, ma anche elevato culturalmente, tanto da sostenere una conversazione con un dotto di scienze e di dottrina civile, quale era Forense. Giotto, oculato uomo d’affari, sfruttò al meglio le sue capacità artistiche e intellettive, tanto da affascinare i suoi concittadini, che lo reputarono uomo simbolo del Trecento. L’arte contemporanea risentì profondamente dell’influsso dello stile giottesco e, come abbiamo potuto appurare, anche la letteratura si interessò a lui. Molti artisti lo considerano il primo vero maestro e lo stesso Michelangelo ne studiò gli affreschi. Il Vasari dedica molto spazio nella sua opera a Giotto, riportando anche aneddoti, che ne sottolineano la perizia artistica, diventati proverbiali. Ricordiamo quello nel quale viene confermata la capacità di rendere la pittura verosimigliante.Si racconta che, essendo ancora l’allievo del Cimabue e non ricevendo la meritata attenzione, dipinse su un quadro una mosca, tanto ben fatta che il suo maestro cercò invano di scacciarla.
Cimabue non si scompose, ma venendo a sapere che l’autore era il suo allievo Giotto, ammise che l’alunno aveva superato il maestro. Nella critica moderna riguardo alla formazione artistica e alla cronologia delle sue opere esistono pareri discostanti.Il Vasari e il Ghiberti lo indicano essere discepolo del Cimabue, rifacendosi alla tradizione, secondo cui Cimabue trovò Giotto fanciullo, che dovendo badare alle pecore, ingannava il tempo disegnando su di un sasso. Cogliendo la sua bravura, Cimabue decise di portarlo nella sua bottega,e farlo diventare un artista. In tempi più recenti, esiste una nuova tesi, fondata sulla riscoperta di alcune opere del Cavallini, secondo la quale esisterebbe una forte influenza cavalliniana sul giovane Giotto. In ogni caso, pur sapendo di eventuali contatti fra il Cavallini e Giotto, i vincoli stilistici che legano quest’ultimo a Cimabue sono molto più stretti ed evidenti, tanto da ridimensionare la nuova tesi.
Negli affreschi di Assisi, soprattutto in quelli del ciclo del Nuovo Testamento, si notano nettamente alcuni tratti stilistici che discendono dal maestro. Da Cimabue riprende l’intensità drammatica, il senso monumentale e la grandiosità dell’arte, interpretandoli con accezione nuova, più terrena e legata alla realtà. Lo stile di Cimabue è di derivazione prettamente bizantina, le pose delle figure, lo scarso interesse nei confronti dello spazio, i gesti e i lineamenti seguono ancora i canoni di questa iconografia. Giotto da subito inizia il processo di distaccamento da tali canoni orientali, pur mantenendo alcuni tratti tipici del maestro, quali il lumeggiare forte e distaccato, i panneggi stirati, e i volti seri. Sebbene nessun documento certifichi con certezza l’attribuzione di questi affreschi a Giotto, sono stati sempre ritenuti tali dalla tradizione. La datazione è incerta, comunque è generalmente ricollegata al 1296 o di poco anteriore.
Nel 1300, l’anno del Giubileo, sempre secondo la tradizione si sarebbe recato a Roma. Qui si trova a contatto con un mondo totalmente diverso dalla sua Firenze, vi sono circa la metà degli abitanti, e la città è un cumulo di antichità in rovina. Le opere qui eseguite creano problemi di attribuzione, e di cronologia.
Il Tosca gli attribuisce alcuni tondi con i busti dei Profeti nel transetto di S. Maria Maggiore, datandoli intorno al 1295, ma la stessa attribuzione è incerta.A Roma di sicuro eseguì l’affresco di S. Giovanni In Laterano e il mosaico della Navicella. Il frammentario affresco in Laterano corrisponde bene allo stile giottesco dell’inizio del Trecento e confermerebbe la presenza dell’artista nella città in quella data.
Ebbe contatti con gli artisti romani, si pensa con lo stesso Cavallini, e con i principali rappresentanti della scuola. L’intento della scuola romana era quello di staccarsi il più possibile dalla iconografia bizantina e nello stesso tempo recuperare la monumentalità, la forza e la dignità delle figure, l’attenzione alle proporzioni della pittura classica, temi che fra l’altro erano già stati recuperati da Nicola Pisano. L’allievo del Pisano, Arnolfo di Cambio ebbe rapporti con Giotto proprio a Roma e questo incontro segnò una svolta decisiva per entrambi, ed infatti possiamo notare come lavorando spesso a contatto diretto, finirono con l’influenzarsi positivamente. Nell’ultimo decennio del Duecento iniziano gli stretti rapporti fra Giotto e l’ordine dei frati francescani che diventano i principali committenti dell’artista. Al tempo degli affreschi di Assisi l’artista ritornò a Firenze dove dipinse il Crocifisso di Santa Maria Novella e forse, nello stesso periodo, la Madonna in Maestà che si trova agli Uffizi, la Madonna di S. Giorgio alla Costa e la tavola conservata al Louvre, il San Francesco che riceve le stimmate.
Per il periodo successivo al 1300, le notizie biografiche si fanno più frequenti, e più certe. Fra il 1304 e il 1306 Giotto si reca a Padova, dove affresca la Cappella Degli Scrovegni, famiglia di ricchissimi banchieri. Il rinnovamento artistico da egli adottato è qui assai evidente. I personaggi, i colori, le architetture usate come fondo sono nettamente discostanti dai canoni tradizionali. Le ingenuità degli affreschi di Assisi, qui si risolvono con un maggior stile compositivo, impostato sui personaggi e il loro dramma. S’incomincia in questo ciclo d’affreschi a notare come Giotto adotti la prospettiva pura, che serve a dare l’impressione dello spazio al di là dal piano d’immagine, ed esperimenti un colore cobalto puro per il cielo, che esalta il volume delle rappresentazioni.
Il numero e la qualità dei committenti di questo periodo, indicano chiaramente la fama raggiunta da Giotto in pochi anni di attività artistica. Ebbe committenti in tutta Italia, e sono documentati dal Vasari alcuni soggiorni a Ravenna, Bologna, e Verona. Negli anni successivi lo troviamo più volte a Roma e a Rimini. Dopo questi soggiorni ritornò ad Assisi per affrescare le cappelle, nel frattempo costruite dai frati francescani, lungo la navata e dietro il transetto. Tra il 1320 e il 1325 lo ritroviamo a Firenze, ed è in questo periodo che l’evolversi della sua attività artistica giunge all’apice. E’ il periodo in cui lavora alle Cappelle delle famiglie facoltose di Firenze, site nella chiesa di Santa Croce, delle quali solo due sono sicuramente attribuibili a Giotto: le cappelle dei Peruzzi, dei Bardi. Nell’attività di Giotto, si ripropone il problema dell’attribuzione, perché spesso il Maestro curava solo il disegno delle opere lasciando il resto ai collaboratori.Alcune di queste, potevano essere eseguite totalmente dalla bottega senza l’intervento diretto del maestro. Ebbe inoltre, un enorme successo fra i contemporanei, con la conseguenza che molti artisti subendone il fascino stilistico, ne imitarono le caratteristiche. Tra il 1328 e il 1333 lo troviamo a Napoli, chiamato dalla corte Angioina per eseguire altre opere, che purtroppo risultano quasi completamente perdute. Sono rimaste soltanto alcune teste decorative dipinte nelle cappelle di Castelnuovo, che tra l’altro, la critica attribuisce all’allievo prediletto di Giotto: Maso di Banco. Per i lavori qui eseguiti, Giotto ricevette numerosi compensi, inoltre nel 1330 il re Roberto d’Angiò lo nominò suo “famigliare”. In seguito, nel 1332, gli donò una somma ingente e una pensione annua per i servigi a lui prestati. Nel 1334 Giotto ritorna a Firenze, dove iniziano i lavori del Campanile del Duomo in costruzione, ed emerge qui la sua abilità d’architetto.
Viene nominato capomastro dell’opera del Duomo e ingegnere capo del comune fiorentino, inoltre pone le fondamenta del campanile omonimo.Nello stesso periodo, consegna i disegni delle Storie delle Creazione, formelle per il suddetto campanile, che saranno scolpite in seguito da Andrea Pisano. Nel 1335 sappiamo che si recò a Milano, e vi rimase fino al 1336. Fu ospite alla corte dei Visconti, ma le opere qui eseguite sono andate totalmente perdute. Tornato a Firenze, inizia ad affrescare la cappella del Podestà nel Palazzo del Bargello. Giotto spirò alla veranda età di settanta anni l’8 gennaio del 1337, ed ebbe solenne sepoltura.