<http://www3.unibo.it/parol/articles/petruzzelli.htm.>
1. Introduzione
Le “Bemerkumgen uber die Farben” comprendono le osservazioni sui colori annotate da Wittengenstein a Oxford ed a Cambridge fra il 1950 ed il 1951 (anno della morte), anche se da più di trent’anni il filosofo si era applicato alla riflessione sui meccanismi logici dell’uso del colore nel linguaggio, una riflessione nutrita di esperienze e corroborata dallo studio. L’immagine del laboratorio è calzante per l’attività di Wittgenstein, perché la sua filosofia incontra la scienza sul terreno comune dell’analogia dei procedimenti logici, per i punti d’arrivo mai definitivi della riflessione in rapporto ad un tema in continuo divenire come il linguaggio. Un «laboratorio filosofico», dunque, spopolato dai prismi, dagli emettitori di luce, dagli schermi bianchi su cui proiettare i fasci luminosi, dai dischi colorati che proprio a Cambridge aveva adoperato Isaac Newton due secoli e mezzo prima.
Per spiegare meglio la via estetica adoperata da Wittgenstein nel campo rigoroso della logica, è utile ricercare indizi nella sua biografia, l’amico Paul Engelmann lo definisce un «viennese» a tutti gli effetti:
«Ludwig Wittgenstein era viennese e, malgrado abbia completato la sua istruzione in Inghilterra e sia stato più tardi professore di filosofia a Cambridge, appartiene senza alcun dubbio all’ambiente intellettuale di Vienna, non soltanto perché era di quei pochi ad aver veramente compreso le grandi figure della vecchia cultura viennese, ma anche perché rappresentava il prodotto e allo stesso tempo l’antitesi più grande di quell’epoca della cultura viennese-ebraica che stava volgendo al termine»
Il suo programma di vita era di alto profilo, improntato alla vecchia endiadi filosofica «kalòs kai agathòs», di cui si trova traccia nei Diari segreti, redatti dal Wittgenstein combattente durante la I guerra mondiale vissuta in condizioni al limite della sopravvivenza:
«Così è questa vita. Ma come devo vivere allora per superare ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza, finché la vita non giunga al termine da sola […] È indescrivibile lo stato di grazia di cui adesso godo, perché sono in grado di pensare e di scrivere. Devo raggiungere l’indifferenza nei confronti delle difficoltà della vita esteriore »
La riflessione filosofica come altra vita, dunque, come un doppio che non cancella l’infelicità, ma la bypassa. Nonostante le tristi vicende della famiglia, la vita raminga e non sempre felice, la figura di Wittgenstein si staglia nel primo cinquantennio del Novecento come quella di un saggio stoico, inattaccabile dalle avversità.
2. Il lungo e significativo preludio alle “Osservazioni sui colori”
Il primo approccio di Wittgenstein alle teorie cromatiche è di natura fisica, infatti avendo compiuto studi d’ingegneria a Manchester e poi recatosi a Cambridge ad apprendere i fondamenti della matematica ammirava Russel (autore dei “Principia matematica”) e Heinrich Hertz (autore de “I principi della meccanica”). Wittegenstein non era certamente impegnato in una diatriba come quella che tra Seicento e Settecento oppose i sostenitori dell’origine qualitativa dei colori (colore = sostanza della materia) rispetto ai fautori dell’origine quantitativa (colore = prodotto della radiazione luminosa), inizialmente per lui la spiegazione fisica era la più immediata. In questa fase iniziale, nelle prime pagine del Tractatus pubblicato nel ’21, scrive:
«Detto di passaggio: gli oggetti sono incolori»
Più tardi nella Grammatica Filosofica affermerà:
«La realtà non è neppure come la luce del giorno, che dà colore alle cose quando sono già presenti nel buio, per così dire, senza colore»
Presto, infatti, la riflessione del filosofo vira verso i suoi veri interessi: la relazione tra il segno ed il simbolo e il suo determinarsi grazie alle categorie di spazio, tempo e colore di cui afferma che sono forme degli oggetti. Tali elementi sono intesi come immagini capaci di raffigurare ogni realtà di cui hanno forma. È vero, però, che l’immagine dell’oggetto in sé non basta, è necessario ricorrere al concetto di relazione logica interna fra più oggetti, per far comprendere meglio Wittgenstein ricorre all’esempio colorato:
«Una proposizione è interna se è impensabile che il suo oggetto non la possieda. Esempio: questo colore azzurro e quello stanno eo ipso nella relazione interna di più chiaro e più cupo. È impensabile che questi due oggetti non stiano in questa relazione»
Il filosofo affronta così il problema di come rappresentare fisicamente i colori:
«Sono sempre in grado di riprodurre qualunque colore io veda. Indico i quattro colori primari (rosso, giallo, blu e verde) e aggiungo in qual modo si possa ottenere da essi quel determinato colore. […] Ogni asserzione sui colori può essere rappresentata mediante alcuni simboli. Se diciamo che sono sufficienti quattro colori primari, allora chiamo questi simboli paritetici elementi della rappresentazione. Gli oggetti sono questi elementi. Non ha senso domandare se gli oggetti siano alcunché di simile ad una cosa […] Parliamo semplicemente di oggetti laddove abbiamo elementi paritetici della rappresentazione»
Il passo appena citato è molto importante, perché è lo snodo cruciale fra la relazione oggetto-nome-rappresentazione (che Hacker chiama isomorfica e che aveva caratterizzato la riflessione del Tractatus) e tutte le successive ricerche filosofiche, allorché nella forma usuale del linguaggio quotidiano (soggetto-predicato) confluiscono una serie di variabili e di relazioni logiche, per cui il linguaggio perde la connotazione semplicistica di designatore di cose per approdare alla forma più complessa di designatore di processi logici. La conclusione è quella esemplificata nei Colloqui, ancora una volta tramite l’esempio dei colori: se i colori, pur non essendo necessariamente legati ad oggetti si possono comunque rappresentare, essi sono asserzioni logiche, hanno un loro posto nel linguaggio umano al di là degli oggetti necessitanti. Wittgenstein nel Tractatus scriveva:
«L’immagine è così legata con la realtà; giunge ad essa. Essa è come un metro apposto alla realtà»
Ora, invece, confessando la sua ignoranza su molte questioni precisa:
«Oggi preferirei dire che un sistema di proposizioni è accostato alla realtà come un metro. E intendo dire che se accosto un metro ad un oggetto spaziale accosto contemporaneamente tutte le linee di graduazione. Non accosto le singole linee ma l’intera scala. Se so che un oggetto arriva fino alla decima linea, so anche immediatamente che non arriva alla linea 11, 12 e così via. Le asserzioni che mi descrivono la lunghezza di un oggetto formano un sistema, un sistema di proposizioni. È un tale sistema di proposizioni nella sua interezza, e non una singola proposizione, che viene confrontata con la realtà. Se dico per esempio che quel punto del campo visivo è blu, so anche che non è verde, rosso, giallo ecc. Ho applicato di un sol colpo l’intera scala dei colori […] Se la mia concezione attuale del sistema di proposizioni è corretta, allora la possibilità di dedurre dall’esistenza di uno stato di cose la non-esistenza di tutti gli altri che sono descritti da tale sistema è addirittura la regola»
Alla domanda dell’amico Schlik, se i colori fossero qualcosa di logico o di empirico, facendo l’esempio del tale rinchiuso nella stanza rossa in grado di vedere solo il rosso, Wittgenstein rispose:
«Se qualcuno non esca mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante), non è quindi un’esperienza: è insito nella sintassi dello spazio, a priori»
Invitato a chiarire ulteriormente il senso delle sue affermazioni da Waismann, il quale da parte sua affermava che la proposizione negativa dà alla realtà uno spazio maggiore di quella positiva, Wittgenstein replicò:
«Le condizioni per la verità di una proposizione presuppongono le condizioni per la sua falsità e viceversa»
Dunque, riconoscere un colore non è semplicemente riportare alla mente una specie di immagine mnemonica dei colori visti e confrontarla con il colore che ci sta dinanzi in quel momento: infatti la nostra mente conosce già anche la direzione per cercare il colore giusto, perché come si è già detto il colore presuppone l’intero sistema dei colori. Il riconoscimento è possibile solo dove esiste un metodo di ricerca. Lo spazio di rappresentazione logica del colore precede la presenza reale, fisica, dell’oggetto colorato e la regola dell’uso dà significato all’impiego delle parole in un sistema grammaticale, altrimenti non ci sarebbe motivo per adoperare due termini insieme. Il filosofo propone un esempio concreto:
«Supponete che io dica: “Questa toga è nera”. La parola “nera” in un certo senso è arbitraria; un altro suono o un altro scarabocchio servirebbero altrettanto bene. E la correlazione della parola “toga” con un particolare oggetto è in sé arbitraria e non ha conseguenze. Ma se una proposizione deve avere senso dobbiamo impegnarci a fare un certo uso delle parole che essa contiene»
Vi è dunque, a questo punto della riflessione, non solo il superamento del rapporto tra la parola e l’oggetto, non solo il riconoscimento di un sistema di relazioni per l’identificazione di un oggetto (nel nostro caso dell’identificazione di un oggetto colorato), ma vi è anche la consapevolezza di quanto le convenzioni che adoperiamo nel linguaggio siano da un lato arbitrarie (perché qualsiasi segno potrebbe accostarsi alla parola “toga” per definirla nera) e dall’altro cogenti (in forza dell’uso). Sono le idee contenute poi nel Brown book e nel Blue book (quaderni di appunti nati probabilmente dopo gli anni dal ’20 al ’26 e così intitolati dal colore della copertina che li rivestiva), che portano ad un ulteriore passo in avanti nella logica wittgensteiniana con il concetto di «gioco linguistico» che deriva dal considerare in modo estremamente mutevole, mai fisso, il campo del linguaggio, e della relazione fra questo e i vari ambiti comunicativi. Anche l’approccio al colore si è fatto più pratico; si parla spesso di macchie (rosse, gialle) per visualizzare i colori e di campionario di colori, di tabella di colori che serva da modello, di campioni e rotoli di stoffa colorata. La definizione dei «giochi linguistici» si trova poi nella Grammatica filosofica:
«Processi imparentati tra loro in modi diversi, tra i quali c’è una molteplicità di passaggi»
e pure nelle Ricerche filosofiche:
«Chiamerò gioco linguistico anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto»
Nel 1932-1934 Wittgenstein lavorò alla Grammatica filosofica, in cui fece il punto su quella gran massa di riflessioni seguita al Tractatus: grammatica perché
«nella grammatica dell’uso si potrebbero benissimo distinguere, tra le specie di parole: parole per la forma, parole per il colore, parole per il suono, parole per la sostanza, ecc. Infatti, dire ad esempio, “Questo si chiama rosso” non è sufficiente, lo sarebbe soltanto se mediante l’espressione colore si fosse stabilita la grammatica della parola “rosso” fino a quest’ultima determinazione. Si potrebbe spiegare così: il colore di questa macchia si chiama “rosso” […] Si indica così in quale luogo si trovi il colore, quale forma, quale grandezza, abbia la macchia (o il corpo) che porta il colore; se il colore sia puro o mescolato ad altri, se sia più scuro o più chiaro, se rimanga sempre uguale oppure cambi, ecc.»
Comprendere una parola, un colore, risulta, allora, come un gioco all’infinito, come una catena in cui vi sono tutte le transazioni effettive del linguaggio: il linguaggio “si allarga” all’infinito.
Già nei Colloqui aveva affrontato il discorso dei colori primari, tramite l’ottaedro dei colori, ma è nelle Lezioni che si specifica la non arbitrarietà delle scelte della grammatica, riproducendo l’ottaedro con l’indicazione dei colori:
«L’ottaedro dei colori è usato nella psicologia per rappresentare lo schema dei colori. Ma in realtà è una parte della grammatica, non della psicologia. Esso ci dice ciò che noi possiamo fare: possiamo parlare di un blu verdastro, ma non di un rosso verdastro, ecc.»
Nelle Osservazioni filosofiche, risalenti al 1929-’30 Wittgenstein definisce l’ottaedro dei colori come grammatica e scrive:
«Quello che mi occorre è una teoria dei colori psicologica o piuttosto fenomenologica, non una fisica e altrettanto poco una fisiologica. E precisamente dev’essere una teoria dei colori puramente fenomenologica, dove si parla solo di ciò che realmente si percepisce e dove non ricorrono entità ipotetiche – onde, cellule, ecc. (allusione a Isaac Newton che studiò la struttura dell’occhio rispetto alla luce).»
In parte vi è consonanza con Goethe, infatti nei Pensieri diversi Wittgenstein afferma in un passo del 1931:
«Io credo che Goethe abbia voluto trovare in verità una teoria non fisiologica ma psicologica dei colori»
Nelle Osservazioni filosofiche si ipotizza di poter ordinare tutte le tonalità cromatiche lungo una retta, con gli estremi nero e bianco, ma più puntuale è l’organizzazione dell’ottaedro, in cui si configura l’analogia con le regole a fondamento del linguaggio comune. Ottaedro e linguaggio comune, dice Wittgenstein, sono perfettamente equivalenti, solo che uno di essi (l’ottaedro) esprime le regole della grammatica già con l’aspetto esteriore.
Nelle Ricerche filosofiche si giunge ad una definizione metafisica del colore, si parla del rosso, per tutti i colori, e si afferma che esso non può venir distrutto o lacerato o frantumato come se dipendesse da una materia rossa, perché il colore «esiste in sé e per sé»: è appunto un enunciato metafisico, esso è eterno e indistruttibile. Come il concetto di sostanza presuppone il concetto di differenza di sostanza, così il concetto del colore presuppone il concetto dei colori: siamo di fronte al gioco consueto della presenza-assenza, quindi considerare un colore presuppone la conoscenza dell’universo dei colori. Wittgenstein si occupò soprattutto dei concetti di colore fino al 1950, difatti un passo manoscritto e poi pubblicato postumo in Ultimi scritti, dice:
«Certo, egli può rimanere stupefatto alla vista dell’oggetto, ma per rimanere stupefatto del colore, perché il colore sia la ragione dello stupore e non soltanto la causa della sua esperienza, egli ha bisogno del concetto di colore e non soltanto della vista»
3. L’opera
Il testo è il testamento filosofico di Wittgenstein. Dedicare tanta parte della propria riflessione ai colori significa che il tema aveva per lui un’importanza basilare, lo si è potuto comprendere già da una breve annotazione del 1948 comparsa nei Pensieri diversi che viene dopo la lunga e appassionante cromostoria asistematica della sua filosofia e prima delle Osservazioni sui colori, un’opera interamente dedicata ai colori, un lavoro in cui si fondono le funzioni del mezzo verbale con le funzioni del mezzo pittorico:
«I colori stimolano alla filosofia. Forse questo spiega la passione di Goethe per la teoria dei colori. I colori sembrano darci da risolvere un enigma, un enigma che ci stimola – senza inquietare»
Fin dalle prime pagine delle Osservazioni ritroviamo, riguardo ai colori, i punti di arrivo delle opere della maturità: il ricorso alle esemplificazioni pratiche fatte con l’uso dei giochi linguistici; la differenziazione tra colori primari e colori intermedi o colori misti. Si approfondiscono, però, le considerazioni psicologiche derivate dai colori:
«Spesso si usano proposizioni che stanno tra la logica e l’empiria, cosicché il loro senso oscilla da una parte e dall’altra di questo confine; ed esse valgono, ora come espressione di una norma, ora come espressione di un’esperienza»
Per comprendere meglio questo concetto, Wittgenstein ricorre ad alcuni esempi: con il colore dell’oro ci riferiamo non tanto al giallo, ma alla superficie splendente del metallo, ricorrendo ad una sinestesia percettiva, e dinanzi ad una fotografia in bianco e nero, in cui vi sono molte tonalità di grigi, pensiamo invece ai colori reali degli oggetti.
Wittgenstein conosceva sia il dibattito sull’origine del colore che aveva occupato molti studiosi fra ‘600 e ‘700, infatti fa riferimento all’”experimentum crucis” di Newton, sia sicuramente aveva letto a fondo la Teoria dei colori di Goethe, la definisce un “Denkschema” (uno schema concettuale), perché la natura dei colori per Goethe non è ciò che proviene dagli esperimenti, bensì risiede nel concetto di colore; secondo il filosofo, però, le osservazioni di Goethe non sono utili ad un pittore o ad un decoratore. Piuttosto Wittgenstein (come si è già detto precedentemente) opta per una spiegazione psicologica, perché a lui interessa il campo di osservazione dei fenomeni:
«La psicologia descrive i fenomeni del vedere. A chi dà la descrizione? Quale ignoranza può eliminare, questa descrizione? La psicologia descrive ciò che è stato osservato»
Al tempo stesso la teoria wittgensteiniana non vuol prendere posizione riguardo alla spiegazione fisica della luce e dei colori; l’analisi fenomenologica del filosofo è un’analisi concettuale e non può né concordare con la fisica né contraddirla. Inoltre i fenomeni esemplificati da Wittgenstein con esempi tratti dal quotidiano e dall’arte, dimostrano una conoscenza tecnica del colore, egli sostiene che colori fondamentali fossero quattro e non tre (la novità com’è già noto è il verde), dando anche una serie di consigli pratici e facendo una serie di considerazioni psicologiche che tendono a modificare alcuni luoghi comuni, ad esempio circa la chiarezza del bianco:
«Non è corretto il dire che in un quadro il bianco dev’essere sempre il colore più chiaro. Tuttavia, in una combinazione superficiale di macchie di colore lo è. Un quadro potrebbe rappresentare un libro di carta bianca nell’ombra, e, più chiaro di questo, un cielo giallo luminoso o blu luminoso. Ma se descrivo una superficie piana, per esempio una tappezzeria, dicendo che consiste di quadrati giallo puro, rosso puro, blu puro, bianco puro e nero puro, allora i quadrati gialli non possono essere più chiari di quelli bianchi, i rossi più chiari dei gialli. Ecco perché per Goethe i colori erano ombre»
Varia anche la relazione tra colore e superficie, per cui l’impressione di un colore dipende anche dalla sua superficie: estensione e forma sono variabili importantissime circa la percezione dei colori. A prima vista appare una certa somiglianza fra Wittgenstein e gli psicologi della Gestalt (in tedesco forma), ma la differenza viene chiarita con quest’affermazione, emessa in relazione al color bianco:
«Io qui non dico quello che dicono gli psicologi gestaltisti: che l’impressione del bianco si è originata in questo modo così e così. Invece la questione è appunto che cosa sia l’impressione del bianco, quale il significato di quest’espressione, la logica del concetto “bianco” […] Il dire: l’impressione del bianco o del grigio arriva casualmente soltanto in queste circostanze (proposizione psicologica della Gestalt) e il dire che è l’impressione di un contesto determinato (definizione, proposizione logica), non è la stessa cosa.»
La tesi fenomenologica di Wittgenstein è legata all’apparire dei fenomeni, fatto questo che lo separa anche da Freud:
«”Fenomeno originario” è, per esempio, quello che Freud credeva di riconoscere nei semplici sogni di desideri. Il fenomeno originario è un’idea preconcetta che s’impossessa di noi»
Wittgenstein si rifiutò categoricamente di dare spiegazioni univoche sul colore, anzi ha rigettato le spiegazioni per occuparsi di ciò che vedeva:
«I nostri concetti di colore si riferiscono qualche volta a sostanze (la neve è bianca), qualche volta a superfici (questo tavolo è marrone), qualche altra volta all’illuminazione (nella luce rossastra della sera), qualche altra volta ancora a corpi trasparenti.»
Lo stesso oggetto ha quindi nella realtà e nella rappresentazione connotazioni differenti.
Infine, per il filosofo il sapere non è lo strumento che spiega ogni sorta di cose e se qualche disciplina come la teologia gioca con le parole dipende dal fatto che non sa come esprimere i concetti, per Wittgenstein invece l’esperienza estetica, frutto di un atteggiamento mobile e di ricerca, unifica il presupposto artistico a quello scientifico perché non è obiettiva in alcun senso propriamente scientifico del termine, e ciò nonostante non è soggettiva in alcun senso peggiorativo o drammatico del termine. Le Osservazioni sui colori sono un saggio fra logica ed esperienza» in cui l’esperienza del colore è indissolubilmente legata al concetto del colore.